In California Christina Corrigan, 13 anni, è morta tra i suoi stessi escrementi schiacciati dai 3 quintali di peso del suo corpo. La morte di questa bambina, considerata già a due anni di vita obesa, la tortura dei suoi ultimi mesi trascorsi in un letto dentro un corpo piagato da, cento ulcere da immobilità, sono l’ingresso di un inferno fisico e morale sempre più affollato: i grassi. Christina in questo inferno era scivolata insieme a sua madre Marlene. E nessuno si preoccupava di lei neanche i professori o i medici della mutua. La sua storia era cominciata normalmente. Appena nata e pesava circa tre chili e mezzo, ma già a due anni un pediatra l’aveva dovuta metterla a dieta ordinando alla madre di darle meno da mangiare. A tre anni pesava 55 chili. A sette, 85 chili, il peso di un maschio adulto. A otto, quando il peso di una ragazza normale dovrebbe essere attorno ai 27 chili. Christina superò il quintale e a nove, quando nello studio del dottore la bilancia superò i 120 chili il dottore raccomandò: «latte scremato, esercizio fisico e riduzione delle calorie», senza neppure consigliare il ricovero in un ospedale o l’intervento di una specialista. «Se la tendenza a ingrassare fosse continuata, avrei consigliato di consultare uno specialista» ha testimoniato il medico in tribunale, come se 120 chili a nove anni non fossero già una tendenza a ingrassare. E dopo quella desolante visita Marlene si arrese. Da allora, 1991, non portò mai più la figlia da un medico e la mutua si guardò bene dall’andarla a trovare. Christina coraggiosamente, eroicamente finì le elementari,. entrò in prima media nel 1993 e crollò.
L’ingenua ferocia dei bambini diventa alle medie la crudeltà competitiva dell’adolescenza. Christina si chiuse in casa. Rifiutò di uscire. Mangiava. Mangiava. Mangiava. La madre doveva lasciarla sola tutto il giorno. Era una donna single, cioè senza compagno o marito. Lavorava a tempo pieno e doveva accudire ai suoi genitori, la mamma sofferente di diabete e il padre di Alzheimer. Christina rimaneva sola nel letto a guardare la televisione e la madre le lasciava sacchetti di cibarie per tenerla buona. Consumava, tra l’altro, 30 candy bars ricoperti di caramello e cioccolato al latte. 50 pacchetti di patatine e 20 secchielli di gelato. Giorno dopo giorno Christina aumentava di peso. Il suo corpo, arrivato a oltre 220 chili, era ormai oltre ogni taglia. Si vestiva di camicioni informi, teli, pareo, lenzuola con un buco per la testa, poi quando decise di adagiarsi sul letto a guardare la TV e a continuare a mangiare, più nulla. Quando il medico legale la trovò nel novembre del 1996 morta d’infarto sul letto era completamente nuda, vestita ormai solo dai suoi escrementi essiccati nelle pieghe della carne e nelle cento piaghe che ulceravano la pelle. Christina segnò 680 libbre. Trecento e otto chili, a 13 anni, e un falegname ha dovuto fabbricare una bara su misura, XXXLarge, perché nessuna di quelle disponibili era capace di contenerla. Al processo l’accusa ha chiesto sei anni di carcere ma si è dovuta accontentare di sei mesi. « Non è quella povera donna, la colpevole», sosteneva l’editrice di Fatso, «Ciccione», la pubblicazione più diffusa della lobby dei grassi americana. «E’ la società che condanna gli obesi a una vita di indifferenza, di torture e di discriminazioni che non sarebbero tollerabili per qualsiasi altro gruppo sociale». Il precedente esiste ed è chiaro: un genitore che non cura l’obesità del proprio figlio. Ma questa non è materia da tribunali né da giornalisti che si occupano di casi orribili ed estremi, come la storia di una bambina morta soffocata nel grasso e morta sola, mentre la madre era corsa al supermercato per andare a comperarle ancora qualcosa da mangiare . Un ultimo bouquet di patatine fritte gettate sulla bara Extra Extra Extra Large di Christina.